Ce l’abbiamo fatta, siamo in un mondo senza Beatles, coi soli Rolling Stones a dettare legge. Sticky Fingers, a conti fatti, potrebbe essere la celebrazione perfetta dei ribelli della Tongue & Lip, ormai senza i loro più acerrimi rivali. Almeno, è questo lo scenario immaginato per anni dai faziosi di Jagger e soci, e che, a ben vedere, nel 1971 avrebbe ben poca ragion d’essere. I Rolling Stones sono già un’istituzione quando Sticky Fingers viene distribuito, ma poiché la musica è rapidamente cambiata negli ultimi anni, e poiché non c’è più il genio di Brian Jones da due anni, il disco che il quintetto mette a segno, sotto molti aspetti, è tanto un’esplosione tipicamente stonesiana, quanto un nuovo passo in avanti, verso un sound meno sperimentale, meno psichedelico, ma parimenti più corposo e levigato: simbolo del nascente decennio in salsa Pietre Rotolanti.
I jeans di Sticky Fingers
In copertina ci sono dei jeans un po’ malconci, con un evidente quanto poco fraintendibile rigonfiamento là dove tutti possiamo immaginare. La cerniera – almeno nelle prime edizioni del vinile – era effettivamente apribile, pertanto, ricordandoci della banana sbucciabile di The Velvet Underground & Nico, basterebbe a farci capire che l’autore fosse nientemeno che Andy Warhol.
Rolling Stones & co.
Eppure, quantunque potrebbe sembrare di ritrovarci nell’ennesima provocazione degli Stones, la produzione di Jimmy Miller – allora artefice del capolavoro John Barleycon Must Die dei Traffic -, vira decisamente verso un sound meno aggressivo, più ricercato, forte anche di una corposa presenza di fiati – Bobby Keys al sassofono e Jim Price alla tromba, su tutti -.
Ovviamente ci sono sempre Mick Jagger e Keith Richards, già nel 1971 due icone incontestabili – benché già orfane di Brian Jones -. Bill Wyman e Charlie Watts, alla sezione ritmica sono le due colonne d’accompagnamento all’estro degli altri due, e lo saranno per ancora molto tempo – Watts lo è ancora, Wyman è andato via nel 1993 -. Ad aggiungersi c’è Mick Taylor, chitarrista solista e polistrumentista. Non è Brian Jones per quanto concerne il genio creativo, ma ha studiato fusion, conosce a menadito tecniche musicali d’ogni tipo, e sa quello che deve fare per arricchire il sound degli altri quattro.
Il disco
Lato A
La partenza è come ci si poteva immaginare un disco degli Stones in quel periodo. Brown Sugar, cruda, gretta e violenta. Mick Jagger, aggressivo come al solito, trova in un riff di Keith Richards il contrappunto perfetto per tramutare un brano altrimenti semplice, in una hit da classifiche perenni. C’è Keys a dare il suo tocco di sax e Ian Stewart, con un piano alla Jerry Lee Lewis che imprimono ancora più richiami al classico rock n’ roll cui la band è solita rifarsi.
Un inizio, è il caso di dirlo, con il botto, e che si pone come perfetto antipasto alla sospensione di Sway. Potremmo definirla una power ballad ante litteram. Qualcosa che introduce uno degli schemi classici degli anni Ottanta. A metà tra una malinconia à la You Can’t Always Get What You Want, e uno sferragliare di chitarre elettriche puramente hard-rock che si fa forza dei due maestri delle sei corde messi insieme a graffiare. Al piano c’è Nicky Hopkins, meno martellante e più delicato di Stewart, e, pertanto, adeguato al sound quasi soul della canzone.
Wild Horses
Giungiamo a Wild Horses. Brano senza dubbio d’innegabile bellezza, dall’atmosfera quasi bucolica, vicino al cantautorato americano di Jim Croce o John Denver, e perché no, anche al folk inglese tanto in voga in quel periodo. Una ballata, melanconica, con il cantato di Mick Jagger che si fa strozzato e profondo quando necessario. Un brano, occorre dirlo, scritto anche con una lieve strizzata d’occhio al mercato che, tuttavia, non ne sminuisce affatto lo splendore compositiva. La acustica di Keith Richards, con un semplice strum, si sposa perfettamente con la solista di Taylor, pulita e sospesa in un panorama stereofonico suddiviso in modo tanto semplice quanto efficace.
Can’t You Hear Me Knocking
Can’t You Hear Me Knocking è il primo punto di svolta del disco – e della band -. Non che fossero mancati pezzi lunghi o più di ampio respiro in passato, tuttavia, è la prima volta in cui gli Stones decidono di concentrarsi sulle derive musicali solistiche. Esso, a metà tra un sapore r’n’b e un’acidità degna dell’ultima parte del decennio precedente, dopo i primi tre minuti di “canzone” vera e propria, si espande in una sequenza di dialoghi e monologhi strumentali di quasi cinque minuti.
C’è Keys, sin da subito, al sassofono, accompagnato dalle martellanti e matematicamente perfette congas di Rocky Duon; essi cedono il posto a Mick Taylor con una chitarra smaccatamente fusion, per certi versi vicina alle sonorità di Abraxas di Santana, uscito l’anno prima. Nondimeno, uno dei turnisti più famosi dell’epoca, nondimeno assiduo collaboratore dei Beatles, Billy Preston, mette le sue incredibili abilità all’organo al servizio di questo, è il caso di dirlo, orgasmo musicale.
Lato B
A chiudere il lato A ci pensa la cover You Gotta Move. Un blues acustico della tradizione delta blues degli anni Trenta. Un brano in cui Jagger e Richards, con voci volutamente gravi, intrappolate nel petto dei due, fanno da perfetto contraltare alla slide di Taylor. Il lato B, a sua volta, comincia con Bitch, un brano che già dal titolo ci riporta all’aggressività di Brown Sugar. E’ chiaro che la band abbia deciso di seguire il medesimo canovaccio, tanto che al riff efficace di Richards – sempre accompagnato dalla sontuosa solista di Taylor – si contrappone un duetto tra Keys e Jim Price, rispettivamente a sax e tromba.
Gemme dimenticate
I Got the Blues, traccia successiva, mesta e malinconica, si apre con un riff lento e prepotente di Taylor. La voce di Mick Jagger, cadenzale, si fa nuovamente strozzata, in perfetto stile blue-eyed soul – e non dovrebbe stupirci sapendo di chi parliamo -, accompagnata dalla sempre più corposa presenza dei due fiati e, all’improvviso, da un breve quanto superbo assolo d’organo di Billy Preston, tagliente nelle sue note che passano abilmente da maggiore a diminuito e poi a minore. L’umore, questa volta, non cambia, anzi si fa più lugubre.
Con lo zampino di Marianne Faithfull, autrice di altri meravigliosi testi della band in passato, Sister Morphine si pone come un brano dalla crudezza narrativa che potrebbe porsi come secondo perfetto raccordo con i Velvet Underground, fruitori dello stesso copertinista di Sticky Fingers, come ben sappiamo. Jack Nitzsche suona un piano sospeso in qualche oscuro e tetro luogo, frattanto che l’ultimo ospite in ordine d’arrivo, Ry Cooder, orla questo mesto e a tratti oscuro quadretto, con una slide poderosa. Una gemma.
La chiosa perfetta ed eterea
Dead Flowers, ancora in salsa folk-blues, potendo contare nuovamente su Ian Stewart al piano, si rivela un brano dalla struttura più semplice, con la voce di Keith Richards che, in pieno stile Usa, lascia pochissime parti soliste a Jagger, imbastendo dei coretti armonizzati tipici della tradizione cui questo piccolo capolavoro si rifà. E per concludere in bellezza, ecco Moonlight Mile. C’è la chitarra ritmica di Keith Richards, di nuovo in dialogo con Mick Taylor. Jim Price ritorna con la tromba, ma si cimenta anche in un piano a tratti esoterico, orientale. In tutto ciò, come se non bastasse, ci aggiungiamo pure una superba sezione d’archi che dona a questa chiosa, quel sapore etereo, meditabondo e dispero nel tempo che un disco come Sticky Fingers merita.
Sticky Fingers è davvero l’apogeo degli Stones?
I Rolling Stones al loro apogeo. Non sono più gli Stones sperimentali e diabolici di Beggars Banquet (1968) – il termine “diabolici” non è un caso per chi ricorderà il brano Sympathy for the Devil ivi contenuto -, ma sono rimasti tanto legati alla loro immagine di icone del rock, quanto più si sono affacciati alle altre possibili espressioni della musica cui si rifanno. Sticky Fingers è un disco che raccoglie in sé tutto ciò che potesse essere il rock più puro e reale. Un disco incapace di invecchiare, capace di sparare bordate adrenaliniche e di cullarci con la medesima mestizia di una nenia.
Alla fine, forse la guerra tra Rolling Stones e Beatles non l’ha vinta nessuno. E’ il 1971, non ci sono più i Beatles e gli Stones, con Sticky Fingers hanno finito per reinventarsi. Forse è vero che la rivalità tra le due band sia una prerogativa anni Sessanta. Sticky Fingers, probabilmente, dà il la alla seconda fase di carriera della band, quella in cui si assistette a una discesa dovuta alla nascita di nuovi generi di rock. Eppure, nell’istante in cui questo disco è impresso, ogni altra parola che può esser detta sparisce. Un disco iconico, fatto da una band iconica. Forse, assieme ai loro rivali di Liverpool, la band più iconica della storia della musica.
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