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Progressive italiano – Retrospettiva su una stagione indimenticabile

today30 Aprile 2021 136

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E’ il 1971 e in Italia, tra i dischi più venduti troviamo prevalentemente Aznavour, Mina, Battisti… i soliti noti. Si è parlato molto di rock negli scorsi anni, ma alla fin fine, non si può certo dire che la British Invasion abbia attecchito così com’è capitato in America dieci anni prima. Non c’è stato un vero fenomeno psichedelico – le droghe allucinogene non sono neppure realmente arrivate – e i gruppi beat come i Giganti, i Ribelli, i Nuovi Angeli, i Corvi, i Samurai, i Camaleonti, ecc., sono subito stati accomunati al pop da classifica. Pertanto, com’è possibile che, al più fra tre anni, parleremo di un altro tipo di pop italiano, in seguito ribattezzato Progressive? E com’è possibile che ne parleremo come di un fenomeno secondo solo a quello inglese?

In un’Italia ancora fiera della sua tradizione operistica, le differenze tra rock e pop sono piuttosto aleatorie, sicché, quando si cominciano a organizzare dei concerti all’aperto sulla falsariga di Woodstock, essi sono definiti raduni pop. E’ di pop italiano che parliamo quando si parla di Progressive in questo periodo. In Inghilterra è un genere già consolidato, quantunque non per il grande pubblico, e quella musica, da oltremanica, finalmente sta sbarcando dalle nostre parti. I produttori fiutano le possibilità e cominciano a mettere sotto contratto band emergenti che si esibiscono in cover di artisti britannici.

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Dies Irae – Formula 3
Photo credit: WEB

Dies Irae, nasce il progressive italiano

Abbiamo parlato del 1971, ma occorre dire che il primo disco effettivo del Progressive italiano fu Dies Irae dei Formula 3, uscito nel 1970. Esso vide una massiccia partecipazione compositiva di Lucio Battisti – la band lo aveva accompagnato spesso negli anni precedenti – e, ben presto, riuscì a consacrare il talento di Alberto Radius, una delle figure fondamentali del genere. Tuttavia, il primo disco ad avere successo anche all’estero e a far parlare del genere fu Collage de Le Orme.

Collage, Le Orme e il primo grande gruppo prog

Le Orme, in una formazione molto alla EL&P – tastiera, basso, batteria -, fu una delle prime band a passare dal beat al prog, imponendosi già nel 1969 con Ad Gloriam, uno dei pochissimi album psichedelici. Pagliuca, Dei Rossi e Tagliapietre, negli anni a seguire, sarebbero diventati tre emblemi della stagione dello spaghetti-prog, creando un sound inconfondibile. Collage, differentemente dal succitato Dies Irae, consta già di brani di più ampio respiro, lontani dalla forma canzone – Cemento armato su tutti -. Le Orme, nei successivi anni, incideranno album grandiosi come Felona e Sorona (1973) e Contrappunti (1974). Saranno uno dei gruppi di maggior successo, sempre con un mai scomparso amore per le canzoni pop – come nel successivo Smogmagica (1975) -, ma con una vicinanza non indifferente alla musica da camera, al barocco e al classicismo.

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Collage – Le Orme
Photo credit: WEB

Concerto Grosso, il metro di paragone del progressive italiano

Tuttavia, per far sì che il genere prog si affermi anche in Italia – sì, perché sarà più facile per gli italiani avere successo all’estero – occorre qualcosa di “diverso”, di “sperimentale”. Occorre che arrivi un compositore.

Luis Bacalov, autore di musica colta, di colonne sonore, ecc., nel 1971 ottiene la possibilità di sperimentare una commistione tra l’orchestra e il rock. Chiama a sé una band che le ha provate tutte, tra beat, pop e psichedelia, e che ora canta in inglese: i New Trolls. Concerto Grosso per i New Trolls non è il primo album di musica prog, come abbiamo capito, ma è quello che diventerà il metro di paragone. Tutto ciò che è progressive deve ricordare Concerto Grosso. I New Trolls incideranno altri tre album seguendo il medesimo genere, sebbene il lato B di Concerto Grosso n.2 ritorni già al pop che aveva caratterizzato la band agli esordi. Tuttavia, l’innesto dell’orchestra, i riferimenti barocchi (Adagio), le derive hendrixiane (Shadows) e le improvvisazioni di venti minuti (Nella Sala Vuota), fanno di Concerto Grosso la quintessenza del progressive, non solo italiano.

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Concerto Grosso per i New Trolls
Photo credit: WEB

Da i Quelli alla Premiata Forneria Marconi

C’è ancora la massiccia presenza della scena pop che impedisce al progressive di sbocciare, ma non è un male. I Giganti, gruppo beat, dopo essersi sciolti ufficiosamente nel 1969, sul finire del 1971 producono Terra in Bocca – Poesia di un delitto, un disco pienamente progressive che parla di mafia apertamente. Ed ecco una delle caratteristiche che più di tutte connoterà il genere in Italia: i temi. Laddove in Gran Bretagna la faranno da padroni i riferimenti letterari fantastici, in Italia essi si alterneranno alle dissertazioni sociali e politiche. Ci arriveremo. Ad ogni modo, parlavamo del pop, e di come Lucio Battisti abbia prodotto il primo vero album progressive italiano. E’ il 1972 quando Mogol scrive due testi per una band emergente che proviene dalla scena beat. Un tempo si chiamavano i Quelli, ma adesso hanno cambiato nome in Premiata Forneria Marconi.

Quante gocce di rugiada…

Impressioni di settembre/La Carrozza di Hans è il primo 45 giri della band. Essi, provenienti tutti dalla casa discografica di Battisti e Mogol, la Numero Uno, hanno già suonato nel capolavoro Emozioni, e, con l’ausilio del duo compositivo, mettono a segno questo immortale disco. Flavio Premoli, il tastierista, riesce a ottenere per l’occasione un sintetizzatore minimoog. In Inghilterra, Keith Emerson lo sta già usando da due anni, ma in Italia quello strumento è un unicum. Premoli ci compone l’inciso più famoso della storia del rock italiano: quello che termina Impressioni di Settembre.

Di lì a poco, il gruppo mette a referto il suo primo Lp, Storia di un minuto. Vicino ancora agli arrangiamenti battistiani, esso è chiaramente influenzato da band quali Genesis e King Crimson, ma si caratterizza comunque per una forte presenza di canzoni propriamente dette, alternate a brani più o meno lunghi (Dove… Quando… e La Carrozza di Hans).

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Storia di un minuto – Premiata Forneria Marconi
Photo credit: WEB

Dalla Premiata Forneria Marconi alla Pfm

Dopo Storia di un minuto, la Premiata Forneria Marconi sfornerà altri due gioielli nel giro di poco tempo, Per un amico (1973) e L’Isola di Niente (1974), avvicinandosi sempre più al modello inglese. Difatti, con Photos of Ghosts (1973) e The World Became the World (1974), il gruppo di Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Flavio Premoli, Mauro Pagani e Patrick Djivas (Giorgio Piazza all’inizio), giunse al successo internazionale.

Fu con l’arrivo di Bernardo Lanzetti, primo vero cantante solista del gruppo, che la Pfm virò decisamente verso l’inglese con i due dischi Chocolate Kings (1975) e Jet Lag (1977). Lanzetti, con il suo timbro molto vicino a Peter Gabriel e una pronuncia dell’inglese inappuntabile, contribuì al successo internazionale del gruppo. Con Passpartù (1978), coadiuvati dai testi di Giancarlo Manfredi, i cinque, privati sia di Pagani che poi di Lanzetti, virarono verso un arena rock che avrebbe caratterizzato gli anni Ottanta. A conti fatti, tuttavia, la Premiata Forneria Marconi rimane la band più influente della scena del progressive italiano, quantomeno per il successo ottenuto.

Banco

Nel 1972, quasi parallelamente a Storia di un minuto, usciva Banco del Mutuo Soccorso. Con la meravigliosa voce lirica di Francesco Di Giacomo, le superbe tastiere del duo di fratelli Nocenzi, Gianni e Vittorio, Pierluigi Calderoni alla batteria e, ben presto, Rodolfo Maltese alla chitarra, il Banco si affermò sin da subito come uno dei riferimenti della scena prog italiana. Il successivo Darwin!, uscito pochi mesi dopo, è indubbiamente il disco dalla fattura maggiormente pregevole di quel periodo. I testi di Di Giacomo, assieme a un altro superbo cantante di cui parleremo a breve, contribuiranno al successo di una delle band più amate dell’intero panorama, ancora oggi.

Darwin! – Banco del Mutuo Soccorso
Photo credit: WEB

I loro dischi successivi, Io sono nato libero (1973), Banco (1975), Come in un’ultima cena (1976), inframezzati dalla colonna sonora per Garofano rosso (1975), sino a giungere a …di terra (1978), lavoro interamente orchestrale, sono da considerarsi delle gemme della nostra storia. Con Canto di Primavera (1979), il ritorno alla forma canzone si fa sotto e, ben presto, anche il Banco si unirà al colpo di coda pop degli anni Ottanta, sino a giungere persino a Sanremo nel 1985.

Radius, da una canzone nasce una band

Nel 1972, curiosamente, Alberto Radius propone a Lucio Battisti di incidere un disco contenente delle jam session di stampo blues. Si chiama Radius e lo si può considerare come il raduno dei più grandi musicisti italiani dell’epoca. Ci sono Gianni Dall’Aglio e Vince Tempera, con cui Radius andrà a comporre il supergruppo Il Volo – assieme a Mario Lavezzi dei Flora, Fauna e Cemento -. C’è Franz Di Cioccio della Pfm, e ci sono alcuni membri dei suoi Formula 3 come Tony Cicco.

Dall’Aglio, però, si è portato il cantante de i Ribelli, un tale di nome Demetrio Stratos. Un greco, apoteosi del canto, belloccio e abile oratore. Assieme a Radius incidono To the Moon I’m going, blues dove la chitarra di Alberto la fa da padrona. Ma c’è un altro brano il cui titolo non passa inosservato. Si chiama Area e a suonarvi sono Patrick Djivas e Giulio Capiozzo. Essi, assieme a Demetrio Stratos pensano che quel titolo potrà esser loro utile. Neppure un anno dopo giunge alle stampe Arbeit Macht Frei, primo lavoro degli Area -International POPular Group.

Gli Area, laddove la Pfm era vicina alla mitologia inglese, e il Banco alla tradizione lirica e orchestrale italiana, sono pressoché gli inventori del jazz-rock nel nostro Paese. Demetrio Stratos è un cantante senza paragoni, capace di trascinare con i suoi ghirigori vocali e con il suo innato carisma. Patrick Djivas andrà via dopo il primo disco per raggiungere la Pfm, e al suo posto arriverà il geniale Ares Tavolazzi.

Arbeit Macht Frei – Area
Photo credit: WEB

Assieme al chitarrista Paolo Tofani e al tastierista Patrizio Fariselli, Capiozzo e Stratos daranno vita a una delle band più uniche dell’intero panorama rock mondiale. Gli Area, con i loro primi tre dischi, riscrivono completamente il modo di fare progressive italiano, introducendo elementi di jazz, di avanguardie vicine alla musique concrete, e, nondimeno, condendo il tutto anche con un po’ di etnicismo.

Inoltre, già dal titolo del citato Arbeit Macht Frei, gli Area impongono subito una certa visione sociopolitica che diventerà alla base del progressive italiano d’ora innanzi. Gli Area sono tuttora famosi per i concertoni a Bologna assieme al grande Eugenio Finardi, una dicotomia che troverà affermazione nel disco del cantautore milanese Diesel (1977), cui presero parte Fariselli, Tofani e Tavolazzi – anche il batterista Walter Calloni, il quale militava negli Area da un anno e partecipò a Maledetti -. La politica, negli anni di piombo, si tradusse per gli Area in una vicinanza costante al mondo della sinistra rivoluzionaria. Ne sono esempi il disco capolavoro Crac! (1975), omonimo – e non è un caso – del festival di stampo sinistrorso che si tiene annualmente a Roma.

Da Bach a Miles Davis

Sarebbero tanti gli altri gruppi da citare, ma si correrebbe il rischio di scrivere un poema. Senza dubbio, l’artista singolo più importante dell’intera stagione prog è l’hippy Claudio Rocchi, cui è dedicato Per un amico della Pfm. Tuttavia, laddove nei primi anni si facevano continui riferimenti al barocco, e nascevano band come Museo Rosenbach, Osanna, Balletto di Bronzo, Metamorfosi – con il loro disco Inferno che fa da colonna sonora all’omonima cantica dantesca -, Quella Vecchia Locanda, Cervello, Alphataurus, Garybaldi, Alluminogeni, Panna Fredda, Opus Avantra, Latte e Miele, ecc., è nella seconda metà della decade che si ha il definitivo salto verso il jazz.

Azimut – Perigeo
Photo credit: WEB

Perigeo

I Perigeo, i Napoli Centrale, i Picchio dal Pozzo, i Pholas Dactylus, per esempio, sono emblemi delle derive jazz e fusion della seconda parte della stagione progressive italiana. I primi due, senza dubbio, sono le due band che riescono a ottenere il maggior riscontro di pubblico. I Perigeo, constanti di una formazione jazz standard, con piano, sax e contrabbasso, rifuggono dai sintetizzatori per i primi loro dischi, per dedicarsi a una fusion limpida e pulita, quantunque oscura. Sono forse l’unica band a distaccarsi totalmente dal modello inglese nella fattispecie per quanto riguarda l’esplorazione iniziale e, anzi, già dal primo disco, Azimut (1972), introducono elementi persino vicini al funk statunitense, all’epoca appena agli albori.

Napoli Centrale

I Napoli Centrale di James Senese, proprio come visto in merito alle due correnti jazz anni Settanta, sono più vicini alle derive elettriche introdotte da Miles Davis, tuttavia non lesinano l’inserimento di richiami alla loro tradizione. Il loro primo disco eponimo del 1976, con la celeberrima suite Campagna, è un’esegesi della musica che li contraddistinguerà. Peraltro, per pochi anni, nei Napoli Centrale suonerà persino Pino Daniele, allora semplice bassista.

Napoli Centrale – Napoli Centrale
Photo credit: WEB

Altre correnti

Infine, i Picchio Dal Pozzo e i Pholas Dactylus. I primi rappresentano un unicum nel mondo italiano. Vicini alla scuola di Canterbury, in particolare ai Caravan e ai Soft Machine, si può dire che siano stati i precursori di quel periodo di fine anni Settanta, quando il mondo di Canterbury fu scoperto dopo esser passato per certi versi inosservato. Rumorismo, derive free-jazz, oscurità e tenebra caratterizzano i Pholas Dactylus. Concerto per menti, il disco del 1973 della band di Paolo Carelli, è senza dubbio uno dei dischi più allucinati dell’intera scena italiana. Lugubre, apocalittico, con la voce di Carelli che preferisce declamare uno scenario lovecraftiano piuttosto che cantare. Entrambi i gruppi, quantunque autori di meraviglie, non sono mai riusciti a raggiungere il grande pubblico.

L’ultimo sfavillo del progressive italiano

Forse le lucciole non si amano più de La Locanda delle Fate è probabilmente l’ultimo disco di progressive italiano. Lo citiamo perché, come commiato, rappresenta forse la summa di tutto. Un disco che ritorna al romanticismo dei Genesis e ai King Crimson, in un’epoca in cui ormai il prog aveva raggiunto tutt’altra direzione. Tuttavia, nel passaggio del progressive italiano alla sua successiva fase, la quale sarà soppiantata dal punk degli anni Ottanta, il citato disco del 1977, è probabilmente l’unica degna conclusione, circolare, di una stagione indimenticabile.

Forse le lucciole non si amano più – Locanda delle Fate
Photo credit: WEB

Conclusioni

Il progressive italiano è stato un fenomeno di difficile individuazione. La sua nascita avviene dal pop, e la sua morte, se così si può dire, è il ritorno al pop. Differentemente dalla corrente londinese, lo spaghetti-prog si è segnalato nel tempo per una vastità esplorativa maggiore. Tuttavia, bisogna anche ammettere che eliminando le band più importanti e rappresentative, molto spesso i dischi usciti non si differenziavano troppo l’uno dall’altro. Soprattutto nel primo periodo, con il barocchismo, i tanti e troppi riferimenti a Bach avevano portato a una stagnazione.

Senza dubbio, con l’arrivo di sonorità più vicine al jazz e all’avanguardia, il progressive italiano ha potuto godere di nuova linfa, e la sua inevitabile vicinanza al mondo politico, gli ha permesso di poter costituire un filo rosso, quantomeno narrativo, con l’esplosione del punk. In modo certamente meno netto rispetto alla Gran Bretagna, dove i Sex Pistols furono piuttosto critici contro il rock dei primi anni Settanta proprio per la vacuità dei testi fantasy.

La stagione del progressive italiano, ciononostante, rimane indimenticabile. Rimane un passaggio immortale, qualcosa di inaspettato visti i presupposti, e che ha permesso all’Italia di dire la propria nel mondo della musica rock. Secondo la storiografia, non è arrivata neppure al decennio di vita, eppure ha inciso il proprio mito nelle menti di tutti gli appassionati. Un’epoca in cui, davvero, ascoltare rock significava essere anche colti, all’avanguardia.

Scritto da: Manuel Di Maggio


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