Hunky Dory di David Bowie, nel tempo, è stato sempre considerato il disco del proto-Ziggy, ovverosia, un album nel quale l’artista britannico sonda il terreno per la svolta che il suo successivo e intramontabile lavoro saprà dare al glam. In soldoni, laddove Ziggy Stardust e Alladin Sane sono i due primi veri successi di critica e di pubblico, Hunky Dory, per molti ha rappresentato un semplice “assaggio”. Sotto molti aspetti, tale pensiero non è sbagliato, tuttavia, analizzando il disco brano per brano, ciò di cui ci accorgeremo è di quanto esso sia un capolavoro a tutti gli effetti, forse perfino superiore ai suoi due eredi, apoteosi del glam.
Come si è arrivati a Hunky Dory
Photo credit: WEB
Del precedente The Man Who Sold the World (1970) ne abbiamo parlato qui, pertanto non ci dilungheremo nel riepilogarlo. Esso, come abbiamo visto, non possedeva dei singoli di traino – eccetto l’immortale title track – capaci di far fare a Bowie quel salto di qualità che in molti si erano auspicati dopo la title track di Space Oddity (1969). Era un disco controverso, oscuro, per certi versi anticipatore di molte correnti musicali, ma privo di quelle intuizioni necessarie alla carriera dell’artista. Così, terminata la sua produzione, Bowie e il suo entourage si misero all’opera su Hunky Dory, un disco che avrebbe dovuto introdurre le tematiche che di lì a poco avrebbero caratterizzato il cantautore.
La copertina
Già a partire dalla copertina si comincia a percepire quell’aria di cambiamento (è un termine che ritornerà tra poco). Bowie indossa i panni di una Greta Garbo moderna, adornato come un’illustrazione liberty à la Mucha, e assume una posa alla “Eccomi, DeMille, sono pronta per il mio primo piano”. L’androginia, l’ambiguità sessuale, condite da una smaccata eleganza e sofisticatezza, tematiche poi estremizzate da Ziggy, ci vengono presentate già con questa istantanea. Un decisivo passo in avanti, rispetto al personaggio non troppo delineato di The Man Who Sold the World. Di fatto, è da Hunky Dory che possiamo cominciare a definire Bowie il Dorian Gray moderno.
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La formazione
Non ci sono ancora le maschere, le esibizioni in mutande o gli atti di fellatio mimati. Tuttavia, l’idea del mondo glam, della liberazione sessuale contro il rinato moralismo inglese, stimola David Robert Jones, ormai giunto alle soglie della maturazione cantautoriale, a unificarsi a tale movimento che trova in Marc Bolan il suo gonfaloniere. Tony Visconti non c’è più, a sostituirlo c’è Ken Scott. Gli arrangiamenti sono in mano al neoarrivato chitarrista Mick Ronson, leader degli Hype, gruppo da cui si porta dietro anche la sezione ritmica: Trevor Bolder (bassista) e Mick Woody Woodmansey (batterista), futuri membri degli Spiders from Mars. A impreziosire il tutto, ci penseranno le sapienti mani di Rick Wakeman, tastierista degli Yes, reduci qualche mese prima dall’altrettanto superbo Fragile. A Wakeman verrà data carta bianca, e i risultati, come vedremo saranno strabilianti.
Gli arrangiamenti di Ronson, differentemente da quanto visto in The Man Who Sold the World, si fanno meno rudi e riprendono parte del filone folk introdotto con Space Oddity, concedendosi però dei lussi orchestrali parecchio ambiziosi, e, perché no, anche delle derive rock taglienti e prive di fronzoli.
Changes
Lato A
Si parte con Changes, celeberrimo, un vero e proprio classico. Già dal titolo e dal testo, nella sua alternanza tra gli arabeschi pianistici di Wakeman e l’orchestra piena, esso presenta al pubblico la nuova corrente cui Bowie si vuole affiliare. Ciononostante, per quanto sia logico pensare a Changes come a un manifesto del Bowie trasformista, egli stesso ha tenuto a precisare come le svariate reinvenzioni della sua carriera, soprattutto all’inizio, siano state dovute dalle false partenze che lo caratterizzarono. Un inno generazionale, la continua ricerca del cambiamento, anche a costo di reinventare se stessi; il tutto, in salsa anni Sessanta, con riferimenti a Bob Dylan (The Times They Are a-Changin’) e a un altro inno generazionale inglese di tale decennio, My Generation dei The Who – di cui si replicano le balbuzie nel ritornello -.
Oh! You Pretty Thing
Oh! You Pretty Thing, attraverso un inconfondibile ritornello e una sequenza di accordi al piano orecchiabili, si contraddistingue per riferimenti fantascientifici ad Arthur C. Clarke. Bowie cita il suo romanzo Le Guide del Tramonto, come riferimento a Nietzsche e alloÜbermensch di cui aveva già discusso in The Supermen, presente nel precedente LP. Eight Line a Poem, intermezzo perfetto, è prevalentemente un duetto tra Wakeman e Ronson, inframezzato da poche liriche. Un apripista perfetto per quello che è il capolavoro dei capolavori: Life on Mars?.
Life on Mars?
Life on Mars?
La conosce pressoché chiunque, ha ricevuto svariati omaggi, imitazioni e anche qualche parodia. Il video prodotto da Mick Rock, con un Bowie truccato a mo’ di diva hollywoodiana del cinema narrativo classico – personaggio antesignano di Ziggy – ha fatto il giro del mondo in pochissimo tempo. Si parte con il meraviglioso piano di Wakeman, in un continuo ghirigoro melodico; Bowie, con la sua voce ancora beatlesiana, introduce il tema cantato prima che l’arrangiamento quasi operistico di Ronson si introduca preponderante. Il testo, in pieno stile bowieano, rappresenta una sequenza d’immagini apparentemente sconnesse l’una dall’altra, che vorrebbero sottintendere uno zapping televisivo. Si passa da Topolino, all’amico John Lennon, a Ibiza, ecc., sino a renderci conto che la protagonista è una ragazza, affascinata dal colorato mondo che la tivù vende a talune persone, altrimenti costrette in un mondo grigio e raggomitolato su di sé. Un instant classic intramontabile.
Kooks
Huky Dory e l’esplorazione dei generi
Kooks, nella sua semplicità, rimanda a Oh! You Pretty Thing, ponendosi su piani per certi versi opposti. Laddove nella succitata traccia, si parlava dell’evoluzione dei bambini – citando il romanzo di Clarke – come menti superiori e antesignani del superuomono nietzscheano, Kooks è scritta come un omaggio piuttosto tenero alla paternità. La canzone, accompagnata da un piano vaudeville che richiama il primo Bowie, si caratterizza per una forte orecchiabilità, proprio vicina al mondo dell’infanzia, tanto che Ken Scott propose all’artista di incidere un intero disco di musica dedicata ai più piccoli – idea che Bowie prese in considerazione senza mai approfondirla -. A chiudere la facciata troviamo Quicksand, una ballata acustica con poche derive orchestrali, caratterizzata da un testo mesto e lievemente malinconico. Un’altra gemma all’interno di un disco che, finora, è stato pressoché perfetto.
Andy Warhol
Lato B
La seconda facciata si apre con una cover di un brano scritto dallo statunitense Biff Rose, Fill Your Heart. Tutto fa affidamento sul piano sincopato di Wakeman, su una batteria in shuffle e sul caro vecchio sassofono, strumento originale di Bowie. Le successive tre canzoni, seguendo la linea dell'”omaggio” introdotta da Fill Your Heart, sono dei veri e propri atti d’amore verso tre personaggi seminali per la carriera di Bowie: Andy Warhol, Song for Bob Dylan e Queen Bitch.
Song for Bob Dylan
L’Hunky Dory americano e i tre grandi omaggi
Il primo, Andy Warhol, proposto sullo stile delle produzioni registiche e musicali di Drella, è un omaggio piuttosto affettuoso a un ispiratore di Bowie. Si dice che il newyorchese non gradì più di tanto, e che sarebbe prevalentemente rimasto affascinato dallo sfarzo ambiguo di Ziggy. Song for Bob Dylan, differentemente dalla precedente, non si limita ad elogiare Robert Zimmerman in persona, ma ne discute anche l’autorità intellettuale, ad avviso di mr. Jones, venuta meno in quegli anni. Sotto molti aspetti, è un’implicita candidatura del cantautore londinese a prenderne le redini. In ultimo, Queen Bitch, con un arrangiamento aggressivo e con uno stile di canto scimmiottante quello di Lou Reed, cita i Velvet Underground. Ne ricalca i testi, la poesia urbana, il mondo crudo e spietato della New York presente in Velvet Underground & Nico e in White Light/White Heat.
Queen Bitch
David Bowie e Lou Reed
Rispetto agli altri due omaggi ad Andy Warhol e Bob Dylan, Queen Bitch è forse il brano maggiormente rappresentativo del prosieguo della carriera di Bowie. Batterà la strada per arrivare a Transformer (1972), il secondo album solista di Lou Reed – uno dei suoi più grandi capolavori – prodotto proprio dal londinese. I due, assieme a Iggy Pop, proprio grazie a questa prima collaborazione, comporranno una delle triadi di artisti solisti più riconosciute e amate del panorama musicale. Nondimeno, proponendo degli arrangiamenti “statunitensi”, introdurrà anche il proto-punk di Suffragette City – presente in Ziggy – e delle esperienze di Aladdin Sane.
The Bewlay Brothers
The Bewlay Brothers
Manca un ultimo brano, una formalità per poter definire Huny Dory un capolavoro. Lo è già, ma trascurare la mesta e tenebrosa The Bewlay Brothers sarebbe un crimine. Un pezzo che, sotto molti aspetti, si raccorda tanto a The Man Who Sold the World quanto ai precedenti tre omaggi, costituendo un’ultima citazione implicita a Syd Barrett. E’ ben noto che Bowie avesse ripreso parecchio dal diamante pazzo dei Pink Floyd, difatti, pochi mesi prima, per onorare gli ultimi mesi di contratto con la sua precedente etichetta, egli rilasciò alcuni brani sotto lo pseudonimo di Arnold Corns, citando l’Arnold Layne floydiano. Un brano cupo, vicino alle tematiche del precedente disco, e dedicato al fratellastro Terry. Ne abbiamo già parlato nella nostra recensione dedicata all’album del 1970: Terry, figlio in prime nozze della madre di David, subì diversi abusi psicologici e fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché affetto da schizofrenia. Com’è ben noto, egli si suiciderà a metà anni Ottanta; a lui, Bowie dedicò Jump They Say contenuta in Black Tie to White Noise (1993).
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Hunky Dory è il capolavoro di Bowie?
Hunky Dory è un disco epocale come Ziggy Stardust? Forse no. Non riesce nell’intento di eguagliarlo giacché manchevole dell’elemento concept basato sul personaggio raccontato nel suddetto disco. Tuttavia, da un punto di vista strettamente qualitativo, Hunky Dory è un disco perfetto. Ogni canzone avrebbe potuto benissimo vivere di vita propria come singolo. Si può dire che sia l’apice della scrittura dell’artista come cantautore nell’accezione più classica del termine. Un classico senza tempo, l’essenza stessa di David Bowie.
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