Deep Purple in Rock, o più semplicemente In Rock, prosegue la rubrica dedicata ai grandi dischi cinquantenni che abbiamo cominciato parlando di Let It Be. E tra chitarre sferraglianti, derivazioni classiche e blues, e una voce che difficilmente dimenticheremo, il quintetto inglese vi dà il benvenuto nella quintessenza dell’hard-rock.
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Di che parliamo quando parliamo di hard-rock
Parlare di generi, tuttavia, appare sempre riduttivo. Laddove i Led Zeppelin erano sperimentazione e misticismo, e i Black Sabbath inauguravano il filone dark che avrebbe trovato diversi estimatori nelle successive decadi, i Deep Purple, con In Rock, introducevano il proprio manifesto. Sfrontatezza, divertissement puramente rock n’roll, ma anche una certa cura e maniacalità nelle partiture classicheggianti e raffinate. Il tutto sin dalla inconfondibile copertina, la quale raffigura i cinque scolpiti sul monte Rushmore al posto dei presidenti. Un’istantanea del Novecento tutto.
I Deep Purple della Mark II
Partiti con la cosiddetta Mark I, con cui avevano inciso già tre album, nel 1969 i Deep Purple si affermarono grazie all’ingresso di Roger Glover al basso e della superba voce di Ian Gillan. Il trittico composto da Ritchie Blackmore (chitarre), Jon Lord (tastiere) e Ian Paice (batteria) poteva quindi contare su una rodata chimica di gruppo e su due eccelsi nuovi innesti per quella che sarebbe passata alla storia come la Mark II, ovverosia la “formazione classica”. La perfetta sincronia tra l’organo di Lord e le chitarre di Blackmore, l’efficacia essenziale della batteria di Paice, ben si sposavano con il cantato inarrivabile di Gillan e, ovviamente, con il basso di Glover, ben più presente e corposo del predecessore Nick Simper.
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Il glorioso Lato A
Speed King è il primo brano. Una dichiarazione d’intenti che fa seguito alla celeberrima copertina. Un manifesto utile a presentarci un gruppo che vuole fare della sfrontatezza la propria ragion d’essere, anche grazie all’incipit più rumoroso mai udito da un orecchio umano. Un riff articolato ma semplice quello che ci introduce alla prima traccia, nella quale, a metà, fa capolino l’organo di Jon Lord, a tratti quasi bachiano.
Sulla falsariga di Speed King troviamo Bloodsucker, sorretta anch’essa dai riff di Blackmore, e inframezzata da alcuni passaggi di Lord. Il tutto, ovviamente, impreziosito dagli acuti di Gillan. Due brani che catapultano l’ascoltatore all’interno del mondo Deep Purple con un’energia imparagonabile e che, pertanto, fanno da perfetto apripista alla gemma più pura del disco: Child in Time.
“Sweet child in time…”
Qui si travalica il confine tra storia della musica e storia generale. Child in Time è forse il brano più universalmente noto della band inglese, e, senza troppi dubbi, il punto più alto raggiunto dai cinque nell’arte compositiva. Una suite di dieci minuti che sfocia spesso nel progressive più coraggioso. Rimandi barocchi, cambi di tempo repentini, perfetta alternanza tra soli di chitarra e di organo, e uno Ian Gillan incommensurabile, capace di arrivare a vette mai più raggiunte. Un crescendo che parte danzando sulle punte come Baryšnikov per poi picchiare come Cassius Clay.
Lato B
Child in Time chiude il Lato A talmente bene che, negli anni, pensare alle successive Fight of the Rat, Into the Fire e Living Wreck come a tre tracce riuscite, è stato sempre complicato. Ammettiamolo, il Lato B perde parecchio dell’imponenza mostrata sulla prima facciata, ma, a parere di chi scrive, considerare questi tre brani come “poco ispirati” è un po’ inglorioso. Tutte e tre facenti parte di un calderone più propriamente hard-rock, hanno il pregio di essere piacevoli, divertenti e schiette, purtuttavia rimanendo lontane dall’essere classificabili come “epiche”, o “irrinunciabili”.
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I Deep Purple inventano il metal
Diverso è il discorso per Hard Lovin’ Man, brano sperimentale con tendenze vicine all’avanguardia, ma anche alla psichedelia e, perché no, anche all’heavy metal. L’andamento rapido del tema principale sarà seminale per diverse band che arriveranno in futuro, sebbene non manchino i soli dissonanti e a tratti schoenberghiani di Jon Lord. Chiudono il disco – a seconda delle differenti versioni – delle take registrate in studio di pochi secondi – note come Studio Chat -, una versione con il pianoforte al posto dell’organo di Speed King e la sempreverde Black Knight, singolo dall’inconfondibile riff che i Deep Purple portavano in concerto già da anni.
In Rock come manifesto barocco di un futuro sferragliante
Un disco epocale. Forse più epocale che bello – nel succitato passaggio centrale -. Il manifesto dell’hard-rock. Capace di unire la crudezza del rock n’roll con la raffinatezza classicheggiante dei suoi componenti. Un perfetto connubio tra sfrontatezza e ricchezza compositiva. Uno di quei dischi che bisognerebbe sempre portare con sé per definirsi amanti della musica rock. La pietra angolare dell’hard-rock. Semplicemente Deep Purple in Rock.
"Quando penso a John Lennon, vedo un artista integro, che non si sarebbe mai svenduto all'industria. Ha dato voce alla musica più vera, era un musicista completo. Quando penso a lui, vedo molta storia, molta forza e molta integrità."Flea Photo credit: WEB John Lennon non sarebbe riuscito a passare inosservato neppure se avesse deciso di credere a sua zia Mimi quando gli ripeteva che la musica non gli avrebbe mai […]
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