Avviene poco spesso che una band rock inanelli una serie perfetta di album perfetti. A memoria, l’unica altra sequenza che potrebbe tornare alla mente è quella messa a segno dai Talking Heads tra Talking Heads ’77 (1977) e Remain in Light (1980). Tuttavia, quanto prodotto dai Led Zeppelin tra il 1969 e il 1971, sotto molti aspetti, è di per sé irripetibile. I quattro dischi sfornati dai quattro britannici sono, per certi versi, un’unica pietra miliare che segue una narrazione cominciata con Led Zeppelin I e terminata con il quarto disco sprovvisto di titolo.
Da sinistra: Jimmy Page, Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones. Photo credit: WEB
Un unico corpus narrativo che comincia a tracciare la strada hard-rock della band rimanendo comunque confinata alle radici british blues (Led Zeppelin I), che detta i codici dell’hard-rock in tutta la sua essenza (Led Zeppelin II), ne cavalca il successo rivolgendo lo sguardo verso nuovi lidi (Led Zeppelin III) ed esplode nella perfezione espressiva d’ogni singolo concetto (Led Zeppelin IV).
I primi Led Zeppelin
In questa nostra raccolta di dischi del giorno che vi proponiamo settimanalmente, Led Zeppelin IV è, senza dubbio alcuno, il disco del 1971 ad essere rimasto più impresso nelle memorie collettive. Come per Nursery Cryme dei Genesis o Who’s Next dei The Who, esso fa parte di una sequenza in crescendo, ma riesce a scorporarsene ponendosi come capolavoro a sé stante. Un disco concepito sin da subito per essere “diverso” dai suoi predecessori. Un riassunto delle radici rock n’roll classiche che avevano spinto la band a quel loro sound tipicamente aggressivo, rimpinguato però del tipico folk che li aveva contraddistinti sin dagli esordi. Una risposta anche alle critiche ricevute per Led Zeppelin III, da molti ritenuto il più debole del quartetto proprio perché non sperimenta ancora a sufficienza un’uscita dagli schemi dei due predecessori.
La copertina
Ma Led Zeppelin III non era altro che una palestra, e le critiche – seppur lievi – spinsero i quattro ad alcune scelte radicali. Per prima cosa fu eliminata la promozione: il disco è distribuito senza pubblicità vera e propria. Un concetto che oggigiorno pare improponibile, ma che lo era anche allora, seppur in una misura meno drammatica dall’idea attuale. I Led Zeppelin, così come i coevi Black Sabbath e Deep Purple, non avevano mai nascosto l’amore per qualcosa che non fosse solo ed esclusivamente relegato all’idea di hard-rock, e che il loro lavoro fosse, per usare un termine moderno, “targetizzato”.
Photo credit: WEB
Ecco da dove nasce la volontà di astrarsi dall’immediatezza dei precedenti tre dischi già a partire dalla copertina. Un muro consumato dal tempo su cui campeggia un quadretto che rappresenta una scena bucolica, questa la facciata. Ma non è finita, beninteso. Aprendo il disco, sul verso è possibile osservare un’istantanea su un quartiere metropolitano e, sulla facciata interna, un oblungo eremita su un fondo buio – ispirato dai Tarocchi – illustrato da Barrington Colby Mom.
Secondo le intenzioni della band, tale sequenza, doveva rappresentare un ideale circolo metaforico che ritraeva un principio e una fine non dissimili nel concetto stesso di vita. Infine, oltre all’assenza di un titolo – come detto poc’anzi – manca anche la firma dei membri, e sulla quarta di copertina sono presenti solo quelle quattro celeberrime rune che, col tempo, sono diventate un simbolo alternativo della band – ancora oggi presenti su gran parte del merchandise ufficiale –.
Niente promozioni, solo canzoni
Una scelta volta ancor più a ribadire il distacco dalle etichette – e dai nomi, ça va sans dire –, benché il loro collegamento alla magia e al misticismo rimanga comunque generico. Difatti, per loro stessa ammissione, John Paul Jones e John Bonham li ritrovarono su un vecchio libro di rune; Robert Plant e Jimmy Page, invece, realizzarono il disegno di proprio pugno, senza specificare da dove l’avessero preso.
Le rune scelte rispettivamente da: Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham. Photo credit: WEB
Lato A
Entrando nel merito di ogni singolo brano presente nel disco, ciò che si comprende dopo un primo ascolto è l’assoluta purezza e semplicità con cui i quattro membri si prodigano nei loro apporti. Quand’anche vi capiterà di sentire Black Dog o Rock and Roll – due singoli dall’inconfutabile fama –, avrete la sensazione di stare ascoltando dei musicisti tecnicamente inarrivabili come di consueto, eppure capaci di spunti di purezza compositiva all’apparenza immediati. Si parte proprio con i due brani citati. Celeberrimi, famosissimi ma non per questo trascurabili. Il primo è un brano che gioca tutto su un riff inconfondibile, nel dialogo tra la Gibson di Page e la voce in falsetto di Plant. Quattro sovrincisioni dell’assolo dovrebbero confermare la vena esplorativa dei membri in merito a ciò che abbiamo scritto poco sopra.
Black Dog live al Madison Square Garden. Credits: YOUTUBE
La scarica d’energia prosegue con Rock and Roll, il quale riprende schemi propri del titolo: riff veloci, struttura con battuta-risposta à la Muddy Waters e omaggi velati o citati a Little Richard – in particolare sono citate Good Golly Miss Molly e Keep a Knockin’ (di cui ricalca parecchio la melodia) –. Nato dopo una jam session con Ian Stewart dei Rolling Stones, esso fa da contraltare perfetto al suo successore The Battle of Evenmore, con cui condivide solo la presenza di un membro aggiunto alla formazione classica: per il resto, i due brani sono agli antipodi. Sandy Denny, cantante del gruppo folk The Fairport Convention, in tale canzone unisce le forze a Robert Plant – e rimarrà l’unico duetto vocale della storia dei Led Zeppelin –, in un mesto e vellutato brano sottovoce, suonato al mandolino e all’acustica rispettivamente da Page e Jones.
Stairway to Heaven
Eccoci. È il momento. Parlare di Stairway to Heaven nel contesto del disco sarebbe riduttivo tanto quanto sarebbe svilente parlarne singolarmente trascurando il disco. Il brano per eccellenza. L’essenza dei Led Zeppelin riassunta in poco più di otto minuti. Le radici folk espresse con il celeberrimo arpeggio iniziale, accompagnato da un flauto intonato da Jones e dal dolce e pacato cantato dello stesso Robert Plant che finirà per urlare con tutta la sua forza attraverso il suo inconfondibile falsetto. Il brano cresce di volta in volta, sperimenta su accordi talora maggiori talaltra minori, Page imbraccia l’elettrica per eseguire i medesimi giri ma arricchirli di una potenza nascente.
Poi entra John Bonham, con il suo inconfondibile tocco pregno e preciso: il brano si dirige verso una nascente e dissimulata chiusura “da Led Zeppelin”, che esplode con uno degli assoli più maestosi di sempre. Jimmy Page ne scrisse quattro versioni, e quella scelta gli valse il premio come miglior solo di chitarra della storia del rock secondo diverse riviste specializzate. Page e Bonham fanno a gara nel finale su chi riesca a scatenare maggiore potenza, per poi concludersi con la stessa grazia con cui era cominciato tutto.
Nel mezzo, un testo oscuro, pregno di citazioni, nello stile del Plant più folk, dove la maestria dei quattro forse più grandi esperti del loro strumento, diviene un connubio imprescindibile. Un’escalation emotiva senza pari – come dichiarato da Page –, un passaggio dalla quiete alla crudezza, alla forza, e un ritorno alla mestizia. Un gioiello inestimabile, forse il più puro mai prodotto nella storia del rock. Semplicemente Stairway to Heaven.
Stairway to Heaven live da The Song Remains the Same. Credits: YOUTUBE
Lato B
Giriamo il disco, comincia il lato B. E qui comincia un nuovo album, per certi versi. Laddove sinora abbiamo udito solo strumenti di provenienza classica, ecco che John Paul Jones introduce alcuni elementi che finora erano stati solo sfiorati nella storia della band. Pianoforti elettrici, mellotron, sintetizzatori e quant’altro. Una sorta di sguardo al futuro Houses of the Holy. Misty Mountain Hop, per quanto contenga citazioni celtiche vicine a J.R.R. Tolkien come per Stairway to Heaven, ha comunque dei toni divertiti e dei riferimenti alla gioventù hard-rock – in particolare alla marijuana –.
La successiva Four Sticks, con un riff ostinato e con la batteria etnica di John Bonham, tenta di proseguire lo stesso stilema presente sul lato A, con due brani “aggressivi” che precedono una ballata folk, la quale è l’altrettanto celebre Going to California. Come per The Battle of Evenmore, John Bonham si prende una pausa e ritorna il mandolino, stavolta suonato dal suo legittimo proprietario, John Paul Jones.
A chiudere le ostilità ci pensa When the Leeve Breaks, brano d’origine antica, composto dalla blueswoman Memphis Minnie nel 1929 e che la band riprende e riadorna a modo suo, con un preponderante ritmo di batteria – il preferito mai composto da John Bonham –, un’armonica a bocca registrata da Robert Plant e una pedal steel suonata da Page. Senza dubbio uno dei brani più Usa friendly della band.
Da sinistra: John Paul Jones, Jimmy Page, Robert Plant, John Bonham. Photo credit: WEB
Gli altri Led Zeppelin
Una seconda parte dell’album forse non perfettamente esplicativa nell’intero contesto del disco, il quale, a conti fatti, risulta comunque l’apice dei Led Zeppelin. Apice, tuttavia, inarrivabile per i futuri Zep, i quali, nella seconda parte della loro decennale storia, andranno incontro ad alcune scelte non proprio fortunate, Houses of the Holy su tutte, a un ultimo squillo di tromba, Presence, a una chiosa da dimenticare, In Through the Back Door, e all’ultimo poderoso capolavoro, Phisycal Graffiti, comunque incapace di gareggiare alla pari con i primi quattro dischi. Una parabola inevitabilmente discendente e interrotta dalla prematura scomparsa di John Bonham il 25 settembre del 1980. Ma Led Zeppelin IV rimane lì, sospeso e immutabile. Un disco imprescindibile per ogni amante del rock e non solo.
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